La foresta ipnotica e “i suoi guardiani”.
Sas Baddes, Nuraghe Mereu e Nuraghe Gorropu.

I grandi classici della letteratura ci hanno insegnato ad amare quei luoghi magici e misteriosi chiamati foreste, da quella di Sherwood nel Nottinghamshire, una vasta area che si estende per 50 km, riserva reale di caccia fin dal X secolo dove regna sovrana la Major Oak una quercia di 800-1000 anni famosa per la sua relazione storica con il personaggio di Robin Hood, alla foresta del Mago Merlino in Bretagna, meglio conosciuta come Foresta di Paimpont, area ricca di querce, faggi e conifere dove leggenda narra che sia ancora presente l’albero dove la “dama del lago” avrebbe imprigionato il celeberrimo mago.

Oltre i vari sentimenti, stati d’animo che aleggiano ogni qualvolta si parli di foresta, si alternano il mistero, la maestosità della natura, il buio, bellezza, il pericolo, l’avventura, in un certo qual senso, vita. L’occhio dell’escursionista che legge di questi luoghi va subito ad ipotizzare quale possa essere il percorso più vicino, quale il prossimo trekking in programma.

È qui che proviamo ad essere di ispirazione.

In Sardegna c’è un luogo davvero difficile da descrivere per quanto affascinante e unico: è la foresta di Sas Baddes, nel Supramonte di Orgosolo. L’abbiamo definita ipnotica perché camminarci all’interno senza perdere l’orientamento e senza lasciarsi trasportare dall’incredibile silenzio talvolta diventa un’impresa. Ci sono momenti in cui sembra di sentirsi in mezzo al nulla e che qualsiasi direzione si prenda non abbia fine. Abbiamo inserito nel titolo “i suoi guardiani” parlando delle due costruzioni megalitiche che si trovano nel suo cuore: il Nuraghe Mereu, conosciuto anche come Nuraghe Intro ‘e Padente (“intro” significa all’interno e su padente è “la foresta”) e il Nuraghe Presethu Tortu o Gorropu, chiamato così per la vicinanza alla gola più famosa della nostra isola.

Andiamo con ordine.

Una delle definizioni migliori di “Supramonte” la si trova nel volume Montagne e Foreste della Sardegna di Domenico Ruju, noto fotografo sardo: [… affacciandosi dalla grande terrazza di Monte Novo San Giovanni si può godere di uno degli scenari più selvaggi dell’intera Europa: Il Supramonte. La montagna si presenta subito senza infingimenti, svelando la sua natura aspra, priva di compromessi, intrisa di una sconvolgente bellezza. Tutto è racchiuso dalla poderosa muraglia calcarea che dalla piana di Othulu nei monti di Orgosolo, prosegue sino ai versanti dolomitici che sovrastano Oliena, dove il Corrasi con i suoi 1463m, è la vetta più alta. A Oriente, oltre la vallata di Lanaittu, la muraglia continua sui monti di Dorgali e Baunei tra le cui vette si vede tremolare in lontananza il Golfo di Orosei. Chiudono il cerchio le terre selvagge di Urzulei che a occidente confinano con quelle di Orgosolo].

Noi aggiungiamo che il Supramonte è un luogo di estrema bellezza che racconta la forza della natura e il tentativo dell’uomo di governarla. La sua formazione calcarea ha origine intorno a 150 mln di anni e oggi presenta un impervio sistema di grotte collegate tra loro, dirupi, doline, passaggi di corsi d’acqua sotterranei inghiottiti dal processo del carsismo creando degli ulteriori fenomeni naturali con modifica pittoresca delle rocce e degli scenari lunari in superficie. Patria di mufloni e cinghiali, ha un piccolo anfibio come custode di un tempo che fu: lo Speleomantes Supramontes un geotritone che vive negli anfratti calcarei umidi e si fa vivo in rarissime occasioni. Figli d’altri tempi sono anche la Trota sarda Salmo cettii, mentre l’Aquila Reale o Aquila chrysaetos e il muflone sardo, un ovino domestico rinselvatichito presente sull’isola fin dal neolitico rendono il paesaggio selvaggio e primordiale. Luogo con alto indice di biodiversità1, il Supramonte conta diverse specie endemiche, talvolta esclusive come l’Aquilegia nuragica Aquilegia nuragica attualmente presente nella Gola di Gorropu come unicum; l’Aquilegia di Sardegna Aquilegia barabaricina, il Ribes di Sardegna Ribes sardoum e tante altre. Tra gli arbusti merita una menzione il Ramno di Sardegna Rhamnus Persicifolia, alto dai 3 ai 5 metri, conosciuto anche come sa pruna agreste, che resiste circondato dalla folta presenza di querce e ginepri. E poi c’è la Peonia sardo-corsa Paeonia Corsica (già Paeonia Morisii), in sardo orrosa ‘e monte, la rosa selvatica dalle magnifiche fioriture rosee ad inizio primavera che predilige i boschi di leccio, i luoghi erbosi e soleggiati al di sopra degli 800 metri.

All’interno di questo scenario irrompe Sas Baddes, con i suoi 4500 ettari è la lecceta primaria più estesa d’Europa, esempio di foresta vetusta2 dove gli alberi, con altezza di 20-25 metri crollano uno sull’altro bloccandone la reale caduta e originando radure dove filtrano i raggi del sole, linfa vitale per un impulso al ciclo della foresta naturale. Tutto questo accade in una atmosfera ombrosa dove regna la pace e sembra che il tempo si sia fermato. Lo scenario di Sas Baddes ha un suo ciclo di vita e purtroppo non la vedremo così per tanto altro tempo, pertanto non appena sarà possibile bisognerà andare a renderle onore. Agenti atmosferici come vento e neve (anche se sporadica negli ultimi anni) abbattono sempre più gli enormi alberi aprendo enormi varchi che pian piano portano alla regressione della foresta.

Proprio qui, dove la natura mostra tutto il suo fascino ecco arrivare il tentativo umano di controllo del territorio. In un’area frequentata fin dal Neolitico si ergono i due “guardiani” già precedentemente menzionati. Siamo a 835 metri sul livello del mare, il sipario di fronte a noi racconta di una vista mozzafiato della Gola di Gorropu, delle creste del Supramonte di Urzulei e stagionalmente ci mostra l’impeto della cascata de Su Cunnu ‘e s’Ebba, che getta a valle l’acqua che va ad unirsi alle altre delle varie codule3 e dei corsi sotterranei che confluiscono a “Sa Giuntura” monumento naturale che le ricongiunge prima di entrare verso il Canyon di Gorropu alimentando il Rio Flumineddu. Ci troviamo esattamente sopra la torre centrale del Nuraghe Mereu (Intro ‘e padente) edificio megalitico classificato come nuraghe complesso4, dotato di tre torri, di cui una a pianta rettangolare che fu costruito probabilmente a protezione di un villaggio circostante nonché di grotte come quella di Hapriles dove furono trovati resti di anfore votive. Nel canalone circostante, poco sotto, fu edificato “l’altro guardiano” il Nuraghe Presethu Tortu o Nuraghe Gorropu data la vicinanza alla vicina Gola ed attualmente difficile da visitare internamente dati i crolli subiti. A confermare l’antropizzazione comunque avvenuta in questi territori non dimentichiamo gli ovili dei pastori costruiti nel Supramonte, Sas Pinnettas, o Sos Pinnettos, testimoni di una cultura pastorale millenaria.

La sete di scoperta e di avventura che un escursionista-viaggiatore possiede, lo porta alla ricerca di quei luoghi dove uomo e natura si incontrano in uno scenario primordiale, rendendo il luogo unico grazie all’esplosione di profumi e colori circondati da un silenzio assordante. Sas Baddes e il Supramonte hanno tutte le caratteristiche che noi avventurieri cerchiamo e con questo speriamo di potervi accompagnare presto come guide in questo luogo magico e senza tempo.

Author: Francesco Manca
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Parole chiave.

1 Biodiversità: Variabilità tra gli esseri viventi.

(Enciclopedia Treccani) La biodiversità, o diversità biologica, è definita dalla Conferenza dell’ONU su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 (art. 2 della Convenzione sulla diversità biologica) “ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi, compresi, tra gli altri, gli ecosistemi terrestri, marini e altri acquatici e i complessi ecologici di cui essi sono parte; essa comprende la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi”. La Convenzione riconosce, quindi, tre ordini gerarchici di diversità biologica ‒ genetica, specifica ed ecosistemica ‒ che rappresentano aspetti abbastanza differenti dei sistemi viventi.

2 Foresta Vetusta: (Forest Beat) Una foresta vetusta è un ecosistema caratterizzato dalla presenza di alberi di età avanzata, che possono quindi trovarsi al termine del ciclo di vita. Le foreste vetuste rappresentano la massima espressione di naturalità nei nostri territori. Infatti, grazie all’assenza dell’azione dell’uomo, gli alberi riescono a compiere tutto il loro ciclo vitale fino alla morte, arrivando così a raggiungere l’età massima possibile a cui nei luoghi fertili sono associate dimensioni notevoli.

3 Codula: (Sardegna Ambiente) Variante Ogliastrina per “gola profondamente intagliata nel calcare dolomitico, con fondo pieno di pietre rotondeggianti”.

4 Nuraghe Complesso: (Il tempo dei Nuraghi) con questo termine si intende un edificio munito di più torri, in genere aggiunto ad una pre-esistente isolata. Sono tuttavia noti nuraghi concepiti già all’origine come strutture complesse come si evince dall’integrazione tra i diversi corpi e dia dalle indicazioni fornite dai materiali archeologici nei contesti scavati. L’archeologo Prof. Giovanni Lilliu ipotizzava circa 2000 strutture, mentre l’archeologo Prof. Giovanni Ugas ne ipotizzava 1050.

Bibliografia

  • Montagne e Foreste della Sardegna | Domenico Ruju | Illisso edizioni
  • Il tempo dei nuraghi | Autori vari | Illisso Edizioni
  • Alberi, Arbusti Erbe della Sardegna | Renato Brotzu | Il Maestrale edizioni
  • Fiori spontanei della Sardegna | Renato Brotzu | Il Maestrale edizioni

Trekking for life: l’avventura di Daniela.
Su Suercone raccontato dalla penna di una tirocinante.

Sono in macchina, è ancora buio e in strada ci sono solo i sopravvissuti del sabato sera. Penso che anche io dovrei essere alla guida a quell’ora solo per tornare a casa e buttarmi a letto dopo la serata.
Arrivo al punto d’incontro. Sono tra i primi. Ho gli occhi appiccicati dal sonno.
Scorgo dei fari che si avvicinano in contemporanea, dalle macchine scende qualcuno che potrebbe essere dei nostri.
Ho freddo e penso che è ancora troppo buio per qualsiasi interazione sociale priva di ripercussioni penali, ma mi faccio coraggio e scendo, raggiungo un capannello di persone. Non mi conoscono ma guardandomi capiscono che anche io sono dei loro, uno fa per presentarsi e dice “Conzuccheroosenza”, “Senzagrazie” dico io nella stretta, e mi ritrovo con una tazza di caffè fumante a scaldarmi le mani.
Sorrido e penso che abbiamo dei nomi bizzarri.

È ancora buio, ma è già meno freddo.
Non so cosa sia successo durante il viaggio, l’ho usato tutto per dormire.
Ho capito che eravamo arrivati, quando, aprendo gli occhi ho visto querce e terra nuda.
Ho dovuto prepararmi in fretta, la condizione di torpore mi aveva rallentato mentre gli altri erano ormai quasi pronti. Ho stretto i lacci e fatto un respiro profondo guardando il cielo reduce dall’alba.
Mi sono convinta di essere pronta per uno dei trekking più belli della Sardegna.

Siamo a Oliena, nella valle di Lanaitto.
La salita è per me già ripidissima, ma a quanto pare il bello deve ancora venire.
Il bosco profuma di un’estate secca che vuole diventare autunno, senza fretta.
Sono in mezzo al gruppo di queste persone appena conosciute, parlano tra di loro, e dai loro scambi ho come la sensazione di stare tra vecchi amici che si rincontrano dopo qualche tempo per aggiornarsi sul proprio presente.
I passi hanno il suono di foglie cadute, metro dopo metro lo scenario muta in colore e consistenza, la terra scura diventa pietra chiara, muri di rocce e ginepri ci portano su una passerella che sovrasta uno scivolo di pietra.
Siamo sulla pendice del letto di un fiume adesso in secca. Mi chiedo come scorra l’acqua quando è vivo, la immagino mentre guardo i solchi evidenti che ha lasciato sul suo cammino. Sento difficile dover proseguire, perché è difficile lasciarsi alle spalle quel candore abbagliante.

Il trekking prosegue tra blocchi di calcare appoggiati sulla Terra che consentono passaggi in tunnel naturali. Lentischi e lecci sostengono le incertezze.
Si sale, ancora e ancora, la fatica è tanta e sono quasi sempre indietro ma non sto mai sola, a rotazione mi trovo accanto i compagni d’avventura, qualche battuta e mi parlano dei loro lavori, dei posti dove vivono. Sono tutti diversi ma è forte la percezione di una passione che li accomuna.

La prima sosta è su uno spiazzo in cui le rocce accolgono la nostra fatica. Mi chiedo se riuscirò a sopravvivere, visto che non siamo nemmeno ad un quarto del percorso, ma gli altri attorno a me ridono e scherzano, un po’ di tutto, un po’ di tutti. Mi rincuorano.
Checco non ha voluto che lasciassi nemmeno la buccia dei mandarini sul percorso “siamo ospiti del bosco, non dobbiamo lasciare nessuna traccia, anche se è biodegradabile” dice. “E va bene” dico.

Ripartiamo.
Adesso capisco perché la salita iniziale era uno scherzo in confronto: davanti a me si apre un canalone che ha le sembianze di una cascata di pietre, vedo la fine e mi sembra sempre troppo lontana. So solo una cosa, che dobbiamo arrivare in cima. Vedo la cima e mi sembra sempre troppo lontana.
Il peso dei miei passi a tratti mi sembra insostenibile, a tratti vengono dei sorrisi a confortarmi. Ormai ho i chilometri sotto i piedi, per salire mi aggrappo alle stesse rocce che mi ostacolano.

Il trekking porta la targa di pietre graffiate dall’acqua che hanno un colore che non riesco a definire con una parola. Mi ricorda l’azzurro del cielo di una bella giornata d’inverno in Sardegna, prima del tramonto.
A questo punto il battito cardiaco che mi pompa forte nelle orecchie è una costante, vedo gli altri salire e zampettare da una pietra all’altra e non posso fare a meno di chiedermi se nelle vite passate fossero stati tutti stambecchi, capre o mufloni, finché appare qualcuno accanto a me che a trentasei denti, dandomi una pacca sulla spalla, mi dice “anche per me le prime volte è stato così”. Lo guardo, mi gronda la fronte, ad ogni passo sento il peso di tutta forza di gravità che agisce sul Pianeta. Tutto quello che ho sopra il collo ha la temperatura di Marte, gli chiedo di avere pietà di me e chiamare l’elisoccorso. Ride.

Ormai ho smesso di pensare alla cima, la fatica e io abbiamo raggiunto un livello di confidenza tale che le sto per chiedere di diventare mia testimone di nozze.
Vorrei solo buttarmi a terra e piangere fino a che non fa buio, aspettare che qualche animale selvatico venga a cibarsi di me e ringraziarlo per l’opera buona, e invece mi ritrovo in cima.
Mi guardo, guardo gli altri, guardo sotto, il fiato ce l’avevo già mozzato, quindi respiro più forte che posso. L’aria mi invade i polmoni, l’ho sentita forte, quasi come fosse la prima volta che si riempivano d’ossigeno, e come per i bambini appena nati, sarei dovuta esplodere in un pianto energico. Ho avuto tutto il tempo per riempire anche gli occhi e il cuore con quello che stavo guardando.

Eravamo in cima alla dolina de su Suercone, la tappa più importante del trekking, una distesa finita perché ne vedevo i confini, ma una sensazione di infinito e immensità tali da farmi sentire nello stesso momento un essere piccolo, minuscolo e senza influenza alcuna sull’Universo, e contemporaneamente gigante, potente e privilegiato, in grado di poter inglobare così tanta bellezza. Quelli più allenati sono scesi giù nella dolina, a “s’ingurtidorgiu”, io dovevo conservare le forze per arrivare sulle mie gambe alla fine.

Con gli altri rimasti, ci siamo seduti all’ombra di un leccio isolato e maestoso.
Mentre restituivo le energie al mio corpo con il cibo e il riposo sulla cima di quel maestoso cucuzzolo, nella mia testa non penetrava alcun pensiero che non fosse riconducibile allo spettacolo che stavo osservando. Vedevo le pareti della dolina come il manto di un animale fantastico pettinato dal suo amico gigante.
Attorno a me persone rilassate, e la miniatura tangibile di quell’immensità eterea.
Ho fatto un giro lì attorno per perdermi nei dettagli del verde e della roccia, ne ho trovato una leggermente concava che mi ha cullato.

Mi hanno risvegliato per il caffè.
A questo punto mi stupiva la mancanza di terrore verso nuovi passi.
La mia futura testimone di nozze non era più così presente ed ero avvolta dalla curiosità per la scoperta dei nuovi scenari di questo trekking.
Come da promessa il sentiero proseguiva in piano e lì il tuo corpo non chiede pietà, va e basta.

Sento dei  campanacci, sotto un leccio vedo tre vacche che ci osservano ruminando, mi chiedo come abbiano fatto ad arrivare fino a lì. Mi chiedo se loro si stiano chiedendo la stessa cosa su di noi.
Siamo sulla piana di campu Donanigoro, in fila su un sentiero battuto dai passi, in una distessa di verdi e spruzzi di massi. Tutt’attorno il cielo.

Siamo ormai ai tre quarti del percorso ad anello, mi dicono che c’è solo un’altra salita da sconfiggere prima della discesa finale. Ho di nuovo un po’ di paura adesso, ma penso che posso farcela.
Quando arriviamo ai suoi piedi, mi rendo conto di non aver ben compreso in precedenza cosa ci aspettava, non era solo una ripida salita, era di più: era una scala.
Un’aspra scala a chiocciola di calcare rosso arancio, ad ingentilirla, solo un corrimano di ginepro. Anche adesso vedo la fine, ma adesso penso che voglio centellinare ogni passo per poterne ricordare ogni granello. Un altro spettacolo per cui vale la pena pagare il biglietto, penso.

Come promesso poi è iniziata la discesa.
Ginepri levigati, cisto e lecci ancora tutti lì, a costeggiare il cammino sulle pietre graffiate.
Sotto le suole sono tornate la terra e le foglie, gli alberi ai margini del sentiero si sono fatti più alti e frondosi, il canto del vento tra le chiome è colonna sonora degli ultimi chilometri in discesa.

Eravamo arrivati, ero sopravvissuta a 14 km di camminata e 2000 m di dislivello.
Il tempo di cambiarci e dare nuovo respiro alla pelle sudata e siamo pronti per la nuova meritata tappa alla cantina sociale di Orgosolo.

I nostri ospiti ci hanno raccontato dei loro vini con passione presente, e per ognuno di noi, la cura che si riserva agli amici più cari. Brindiamo alla giornata appena trascorsa e a chi ci ha permesso di viverla.

Ho usato di nuovo il viaggio per dormire, questa volta per riposare un corpo stanco, ma riempito di un’energia nuova. Siamo arrivati al punto di incontro, adesso saluto tutti conoscendo i loro nomi e qualcosa in più sui bagagli che portano.

Sono alla guida verso casa ed è di nuovo buio.

Ho in mente la potenza dei posti che ho visto. Rifletto sulle persone a cui ho appena augurato la buonanotte. Ho capito le sensazioni che ho avuto guardandoli all’inizio. Tutti con le loro vite, con le loro personalità definite, unite da quello che il trekking ti dà, non solo per quello che trovi di fuori, ma per il tempo che ti concede di stare con te stesso, dentro, nel profondo, per sentire il tuo respiro e lo scorrere della vita in ogni vena.

Persone tra loro sinergiche, in cui si ha lo spazio per condividere fin dove si vuole e stare con se stessi se lo si vuole.

Allacciandomi gli scarponi, mi ero convinta di essere pronta per uno dei trekking più belli della Sardegna, adesso penso che la Sardegna contiene una bellezza per cui non si può mai essere pronti.

Daniela Vitellaro, in trekking a Su Suercone © 2019

Trekking a Ulassai, il Tacco di Tisiddu e Maria Lai

L’arte tessile nel cuore dei tacchi.

L’Ogliastra è una regione storico-geografica della Sardegna, talvolta inquadrata come misteriosa, splendida e inaccessibile. Ogni giornata trascorsa in Ogliastra lascia senza fiato, affascinati dalla limpidezza delle sue acqua marine, dalla conformazione selvaggia delle sue montagne e dallo spirito caloroso dei suoi abitanti.

È così questa parte di Sardegna in poco tempo riesce a conquistare il cuore con la sua maestosità tra monumenti naturali e panorami mozzafiato.

Ulassai è uno dei paesi più rappresentativi di questa regione grazie ad alcune attrattive davvero uniche che andremo a visitare durante la nostra escursione.

Il Monte Tisiddu con il suo inconfondibile tacco è uno degli altipiani calcareo-dolomitici più famosi del circondario, formatosi grazie all’erosione degli strati carbonatici sedimentatisi durante il mesozoico, ad opera soprattutto dell’acqua. Nel tacco emergono numerosi fenomeni carsici ed è ricca la presenza di grotte e doline come del resto presenti in gran parte del territorio ogliastrino.

Lungo l’altopiano spiccano alcune cime tra cui Bruncu Matzeu (957mslm) e Bruncu Su Casteddu (882mslm) e da entrambi si gode di un ottimo panorama che spazia dalla Sardegna orientale fino alle cime del Gennargentu; nelle giornate più limpide è ben visibile la catena dei 7 Fratelli in direzione sud. Il percorso, in gran parte ricoperto di foresta mediterranea sempreverde, dove i lecci fanno da padroni, troviamo la Grotta de Is Janas le cui pareti sono frequentemente illuminate dal sole che ne fa un ottimo elemento scenografico.

Il trekking a Ulassai presenta un percorso che si snoda su carrarecce, mulattiere e sentieri nel bosco per circa 14 km con un dislivello accumulato di 450m. Una bella giornata all’aria aperta e alla scoperta di luoghi nuovi ma sempre in movimento.

Altra attrazione di Ulassai è Maria Lai, estroversa artista contemporanea, eccellente rappresentante della Sardegna nel mondo.

Alla conclusione del nostro trekking si andrà a visitare la stazione dell’arte, che come riportato nel sito web ufficiale è <<il punto di arrivo dell’ambizioso progetto che Maria Lai e il paese di Ulassai hanno coltivato per oltre un trentennio>>.

Gli spazi museali della Stazione dell’arte sono stati ricavati negli edifici della vecchia stazione ferroviaria e sono stati allestiti come un moderno centro d’arte contemporanea che ospita le opere della nota artista locale ma si apre anche ad altre forme artistiche.

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