La vera montagna corsa.
Viaggio in Corsica a settembre 2021.

Non sono tante le volte in cui, rimanendo in Sardegna, si può vivere la vera montagna. Trekking dal dislivello che rabbrividisce e infinite pietraie che accompagnano per svariati chilometri. La Corsica è la nostra isola gemella, si, però a differenza nostra presenta una conformazione montuosa più imponente prestandosi a veri e propri trekking di difficoltà medio-alta.

Dopo il lungo viaggio e una notte in zona Calvi, abbiamo raggiunto la foresta di Bonifatu. Abbiamo infatti deciso di seguire una variante del GR20, cosa che ormai fanno in molti, evitando l’attacco da Calenzana. Presso la foresta ci sono inoltre, dei laghetti molto carini, ottimi per rinfrescarsi prima dell’inizio del trekking. Una volta partiti, ci siamo inoltrati nella foresta di pini larici secolari, maestosi, che ci hanno protetto dal sole per gran parte del percorso. La salita è infinita, 1000 metri di dislivello per una decina di chilometri. Durante il percorso, eravamo circondati dalle montagne di granito e da piante magiche locali come l’elleboro di Corsica, estremamente velenoso, e i gigli di San Giovanni di colore vivo arancio. La fatica è stata ricompensata dalla vista che si domina dai 1560mt del rifugio di ortu di ‘u piobbu. La cosa più bella arrivati al rifugio? La Pietra fresca!

Dal rifugio i frastuoni iniziano molto presto. Tra le 4 e le 5 del mattino, molti escursionisti iniziano a percorrere le vie del GR20. Partendo presto si spera di fare la grande fatica evitando il sole cocente. Noi preferiamo goderci le prime luci del mattino dal calduccio della tenda. In questo modo le docce non sono affollate e si può fare colazione in tranquillità.

La seconda giornata, nonché seconda tappa del GR20 è definita una delle più difficili. La Bocca dell’Innominata ci aspetta: 8 chilometri di percorso con 700mt di dislivello positivo e 800mt di dislivello negativo. Dopo un salitone attraverso la foresta di pioppi e ontani, si raggiungono le creste e si apre di fronte un panorama mozzafiato sul Monte Cinto e tutte le sue vette. Tra catene e pareti da arrampicare la meta non è lontana. Una volta raggiunta l’Innominata, si inizia ad intravedere la vallata del rifugio Carrozzu che dai 2000mt raggiunge i 1200mt con una discesa che taglia letteralmente le ginocchia. Fortunatamente ad aspettarci c’erano due belle birre fresche ed un tramonto indimenticabile. Qui, hanno inoltre una buonissima torta alla castagna che vi consiglio di assaggiare: una prelibatezza ad alta quota.

A poca distanza, proprio lungo la terza tappa si trova la passerella della Spasimata sopra il fiume omonimo. Qui ci sono delle piscinette incantevoli e glaciali, ottime per rinfrescarsi dopo la lunga seconda tappa. L’ideale è proprio visitarle la sera, all’arrivo a Carrozzu, in modo da non dover immergersi nell’acqua ghiacciata all’alba.

Il terzo giorno, dobbiamo abbandonare i percorsi ufficiali del GR20 per raggiungere nuovamente la foresta di Bonifatu dove ci aspetta il nostro Meeno. I chilometri sono più di 8, ma il percorso è tutto in discesa. All’arrivo, non lontano dal parcheggio, ci sono altre piscinette lungo i fiumi di montagna, un tocca sana per i piedi negli scarponi da giorni.

Su e giù per le montagne corse, ogni giorno scenari diversi ed emozioni uniche indimenticabili. Per tre giorni abbiamo dimenticato gli impegni, i problemi, come se stare sulle vette della Corsica ci permettesse di avere uno sguardo distante dalla nostra vita laggiù. Non vedo l’ora di ripartire!

Francesca Montisci ©
All right reserved
Agosto 2021

Il viaggio in Corsica con Your Sardinia Experience può essere visualizzato seguendo questo link: https://bit.ly/3xYf6Kg

 

VIAGGIO NEL SUPRAMONTE DI BAUNEI:
4 TREKKING DA SOGNO CON VISTA MARE

Il connubio tra mare e montagna rende unici i panorami della Sardegna e gli itinerari escursionistici sardi riservano meraviglie che offrono un infinito ventaglio di possibilità, come quelli del Supramonte nella Sardegna centro-orientale. Imponente e immenso nei suoi 35 mila ettari di estensione, il Supramonte è un sistema di catene di montuose di origine calcarea che racchiude i territori dei cinque comuni di Orgosolo, Oliena, Urzulei, Dorgali e Baunei. Il Supramonte è diviso in due parti: il Supramonte Montano e il Supramonte Marino, e ciascun ‘Supramontes’ ha proprie caratteristiche peculiari con un incredibile varietà di ambienti e paesaggi inimitabili.

Abitati sin dalla preistoria, i sentieri dei Supramontes sono punteggiati da numerose testimonianze archeologiche, e tappa fondamentale dei trekkers nelle escursioni sono molto spesso le caratteristiche abitazioni dei pastori sardi chiamate “sos Cuiles”, o ovili tradotto in italiano. Abbandonate negli anni 70, sos Cuiles sono strutture abitative circolari, antica testimonianza di una vita di duri sacrifici che i pastori conducevano in solitudine a stretto contatto con la natura e gli animali. Bisogna evidenziare che è raro imbattersi fortuitamente in queste costruzioni durante un trekking se non le si cerca appositamente; questo perché i pastori preferivano edificare gli ovili lontano da occhi indiscreti.

IL SUPRAMONTE DI BAUNEI: tra mare e natura incontaminata

Il Supramonte di Baunei è una tappa fondamentale per gli appassionati di trekking che vengono in Sardegna in cerca di una nuova avventura e per immergersi nella natura incontaminata di questi luoghi. La primavera e l’autunno sono senz’altro le stagioni più consigliate per un trekking nel Supramonte Marino, meta vivamente consigliata per gli escursionisti che desiderano passare una giornata di trekking e un tuffo in un mare mozzafiato.

I trekkers più esperti scelgono questo territorio per affrontare il celebre Selvaggio Blu, un classico per gli escursionisti che ha preso il famigerato titolo di “trekking più impegnativo d’Italia”. Oltre al Selvaggio Blu, ci si può avventurare in altri trekking meno conosciuti ma di altrettanta bellezza, ma quali percorsi scegliere? Your Sardinia Experience ha scelto per voi 4 itinerari escursionistici da sogno dove acque blu, sentieri selvaggi e carbonato di calcio fanno da ingredienti speciali per un super trekking.

  • BACCU MAORE

Un percorso ad anello di 7,8 Km con un incredibile varietà di ambienti ed emozionanti passaggi con prospettive uniche. Si parte dalla zona Irbidossili per poi proseguire tra olivastri e sentieri dove il paesaggio si volge tutto sul Golfo di Orosei con il suo mare dalle sfumature turchesi. Gli esperti suggeriscono di dividere il percorso in due giorni. A seconda della stagione potete pernottare presso le spiagge di Portu Cuau e Portu Pedrosu oppure, se volete seguire le orme dei pastori, al Coile Eltiera, uno dei più grandi della zona restaurato nel 2015. Particolarità di questo coile è la sua porta di ingresso, ricavata dal fasciame della nave mercantile Levante che nel 1936 si schiantò sugli scogli di Porto Cuau. Questo trekking ha dei punti in comune con il famoso Selvaggio Blu, ed è possibile fare una variante per raggiungere la nota Cala Goloritzè, spettacolare gioiello della costa sempre presente nelle classifiche delle 10 spiagge più belle d’Italia.

  • BACU MUDAROLU

Un’altra escursione molto affascinate e dal carattere selvaggio e impervio è quella di Bacu Mudarolu. Il percorso inizia dalla località Orgoduri e più ci si avventura nel sentiero, più l’ambiente circostante lascia spazio alla natura incontaminata e selvaggia. Una volta giunti alla spiaggia di Portu Mudarolu dove è vivamente consigliata una sosta balneare, potete scegliere se risalire il Baccu per raggiungere lo spiazzo di Piredda, o dilungare il trekking per affrontare il percorso ad anello per poter ammirare S’Iscalone de Urele; un percorso fisicamente impegnativo ma che in cambio offre uno scenario naturale grandioso. Lungo il sentiero potete imbattervi in antichi insediamenti pastorali come la grotta-ovile di Sa rutta ‘e Su Coile de Urele. Questo trekking ha una lunghezza di 4,7 Km con la variante ad anello di 4,9 Km.

  • CALA BIRIOLA

Chiamata dai baunesi “Billariccòro”, questo percorso merita una menzione speciale poiché è la spiaggia più difficile da raggiungere del Supramonte di Baunei. Partendo dalla località di Ololbitzi, questa escursione è particolarmente impegnativa per la presenza di brevi tratti in arrampicata e la mancanza di rifornimenti d’acqua lungo il percorso. Il percorso si snoda tra lecci secolari, ginepri e antiche mulattiere costruite dai carbonai, che come i pastori, frequentarono queste zone lasciando numerose testimonianze come passerelle di tronchi ritorti, scale e guide in ferro per agevolare passaggio e raggiungere il mare. Ma lo sforzo è senz’altro ripagato dallo spettacolo e da un tuffo nelle acque smeraldine di Cala Biriola che è una tappa fondamentale per chi visita la Sardegna.

  • CODULA ELUNE

Tra le numerose escursioni che si possono fare in Sardegna e nel Supramonte di Baunei, l’itinerario di Codula Elune merita una menzione speciale. La Codula è uno dei più grandi canyon del Supramonte e l’intero trekking è lungo circa 11 Km, con possibilità di dividere il percorso in due giornate o fare degli abbinamenti e varianti a seconda della stagione. Anche in questo caso si tratta di un circuito ad anello con punto di partenza dalla località Teletottes. Camminando lungo la strada ci si immerge tra le bellezze di una natura selvaggia fatta di falesie a picco sul mare, grotte, canyon e i profumi della macchia mediterranea, caratteristiche distintive di questo territorio. L’itinerario si conclude a Cala Luna con le sue grandi grotte scenografiche che rendono il paesaggio ancora più suggestivo e magico. Questa meravigliosa spiaggia perla e simbolo del Golfo di Orosei segna il confine tra il comune di Baunei e Dorgali.

Noi di Your Sardinia Experience siamo orgogliosi di poter guidare i gruppi alla scoperta di queste meraviglie.
Scriveteci per informazioni

info@yoursardiniaexperience.com
+39 340 006 9191

Autore: Elisa Mameli
Your Sardinia Experience © 2020
All rights Reserved

Bibliografia:
Sentieri, Mattero Cara, Fabula editore
Montagne e foreste della Sardegna, Domenico Ruju, Illisso Editore

La foresta ipnotica e “i suoi guardiani”.
Sas Baddes, Nuraghe Mereu e Nuraghe Gorropu.

I grandi classici della letteratura ci hanno insegnato ad amare quei luoghi magici e misteriosi chiamati foreste, da quella di Sherwood nel Nottinghamshire, una vasta area che si estende per 50 km, riserva reale di caccia fin dal X secolo dove regna sovrana la Major Oak una quercia di 800-1000 anni famosa per la sua relazione storica con il personaggio di Robin Hood, alla foresta del Mago Merlino in Bretagna, meglio conosciuta come Foresta di Paimpont, area ricca di querce, faggi e conifere dove leggenda narra che sia ancora presente l’albero dove la “dama del lago” avrebbe imprigionato il celeberrimo mago.

Oltre i vari sentimenti, stati d’animo che aleggiano ogni qualvolta si parli di foresta, si alternano il mistero, la maestosità della natura, il buio, bellezza, il pericolo, l’avventura, in un certo qual senso, vita. L’occhio dell’escursionista che legge di questi luoghi va subito ad ipotizzare quale possa essere il percorso più vicino, quale il prossimo trekking in programma.

È qui che proviamo ad essere di ispirazione.

In Sardegna c’è un luogo davvero difficile da descrivere per quanto affascinante e unico: è la foresta di Sas Baddes, nel Supramonte di Orgosolo. L’abbiamo definita ipnotica perché camminarci all’interno senza perdere l’orientamento e senza lasciarsi trasportare dall’incredibile silenzio talvolta diventa un’impresa. Ci sono momenti in cui sembra di sentirsi in mezzo al nulla e che qualsiasi direzione si prenda non abbia fine. Abbiamo inserito nel titolo “i suoi guardiani” parlando delle due costruzioni megalitiche che si trovano nel suo cuore: il Nuraghe Mereu, conosciuto anche come Nuraghe Intro ‘e Padente (“intro” significa all’interno e su padente è “la foresta”) e il Nuraghe Presethu Tortu o Gorropu, chiamato così per la vicinanza alla gola più famosa della nostra isola.

Andiamo con ordine.

Una delle definizioni migliori di “Supramonte” la si trova nel volume Montagne e Foreste della Sardegna di Domenico Ruju, noto fotografo sardo: [… affacciandosi dalla grande terrazza di Monte Novo San Giovanni si può godere di uno degli scenari più selvaggi dell’intera Europa: Il Supramonte. La montagna si presenta subito senza infingimenti, svelando la sua natura aspra, priva di compromessi, intrisa di una sconvolgente bellezza. Tutto è racchiuso dalla poderosa muraglia calcarea che dalla piana di Othulu nei monti di Orgosolo, prosegue sino ai versanti dolomitici che sovrastano Oliena, dove il Corrasi con i suoi 1463m, è la vetta più alta. A Oriente, oltre la vallata di Lanaittu, la muraglia continua sui monti di Dorgali e Baunei tra le cui vette si vede tremolare in lontananza il Golfo di Orosei. Chiudono il cerchio le terre selvagge di Urzulei che a occidente confinano con quelle di Orgosolo].

Noi aggiungiamo che il Supramonte è un luogo di estrema bellezza che racconta la forza della natura e il tentativo dell’uomo di governarla. La sua formazione calcarea ha origine intorno a 150 mln di anni e oggi presenta un impervio sistema di grotte collegate tra loro, dirupi, doline, passaggi di corsi d’acqua sotterranei inghiottiti dal processo del carsismo creando degli ulteriori fenomeni naturali con modifica pittoresca delle rocce e degli scenari lunari in superficie. Patria di mufloni e cinghiali, ha un piccolo anfibio come custode di un tempo che fu: lo Speleomantes Supramontes un geotritone che vive negli anfratti calcarei umidi e si fa vivo in rarissime occasioni. Figli d’altri tempi sono anche la Trota sarda Salmo cettii, mentre l’Aquila Reale o Aquila chrysaetos e il muflone sardo, un ovino domestico rinselvatichito presente sull’isola fin dal neolitico rendono il paesaggio selvaggio e primordiale. Luogo con alto indice di biodiversità1, il Supramonte conta diverse specie endemiche, talvolta esclusive come l’Aquilegia nuragica Aquilegia nuragica attualmente presente nella Gola di Gorropu come unicum; l’Aquilegia di Sardegna Aquilegia barabaricina, il Ribes di Sardegna Ribes sardoum e tante altre. Tra gli arbusti merita una menzione il Ramno di Sardegna Rhamnus Persicifolia, alto dai 3 ai 5 metri, conosciuto anche come sa pruna agreste, che resiste circondato dalla folta presenza di querce e ginepri. E poi c’è la Peonia sardo-corsa Paeonia Corsica (già Paeonia Morisii), in sardo orrosa ‘e monte, la rosa selvatica dalle magnifiche fioriture rosee ad inizio primavera che predilige i boschi di leccio, i luoghi erbosi e soleggiati al di sopra degli 800 metri.

All’interno di questo scenario irrompe Sas Baddes, con i suoi 4500 ettari è la lecceta primaria più estesa d’Europa, esempio di foresta vetusta2 dove gli alberi, con altezza di 20-25 metri crollano uno sull’altro bloccandone la reale caduta e originando radure dove filtrano i raggi del sole, linfa vitale per un impulso al ciclo della foresta naturale. Tutto questo accade in una atmosfera ombrosa dove regna la pace e sembra che il tempo si sia fermato. Lo scenario di Sas Baddes ha un suo ciclo di vita e purtroppo non la vedremo così per tanto altro tempo, pertanto non appena sarà possibile bisognerà andare a renderle onore. Agenti atmosferici come vento e neve (anche se sporadica negli ultimi anni) abbattono sempre più gli enormi alberi aprendo enormi varchi che pian piano portano alla regressione della foresta.

Proprio qui, dove la natura mostra tutto il suo fascino ecco arrivare il tentativo umano di controllo del territorio. In un’area frequentata fin dal Neolitico si ergono i due “guardiani” già precedentemente menzionati. Siamo a 835 metri sul livello del mare, il sipario di fronte a noi racconta di una vista mozzafiato della Gola di Gorropu, delle creste del Supramonte di Urzulei e stagionalmente ci mostra l’impeto della cascata de Su Cunnu ‘e s’Ebba, che getta a valle l’acqua che va ad unirsi alle altre delle varie codule3 e dei corsi sotterranei che confluiscono a “Sa Giuntura” monumento naturale che le ricongiunge prima di entrare verso il Canyon di Gorropu alimentando il Rio Flumineddu. Ci troviamo esattamente sopra la torre centrale del Nuraghe Mereu (Intro ‘e padente) edificio megalitico classificato come nuraghe complesso4, dotato di tre torri, di cui una a pianta rettangolare che fu costruito probabilmente a protezione di un villaggio circostante nonché di grotte come quella di Hapriles dove furono trovati resti di anfore votive. Nel canalone circostante, poco sotto, fu edificato “l’altro guardiano” il Nuraghe Presethu Tortu o Nuraghe Gorropu data la vicinanza alla vicina Gola ed attualmente difficile da visitare internamente dati i crolli subiti. A confermare l’antropizzazione comunque avvenuta in questi territori non dimentichiamo gli ovili dei pastori costruiti nel Supramonte, Sas Pinnettas, o Sos Pinnettos, testimoni di una cultura pastorale millenaria.

La sete di scoperta e di avventura che un escursionista-viaggiatore possiede, lo porta alla ricerca di quei luoghi dove uomo e natura si incontrano in uno scenario primordiale, rendendo il luogo unico grazie all’esplosione di profumi e colori circondati da un silenzio assordante. Sas Baddes e il Supramonte hanno tutte le caratteristiche che noi avventurieri cerchiamo e con questo speriamo di potervi accompagnare presto come guide in questo luogo magico e senza tempo.

Author: Francesco Manca
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Photo credits: Your Sardinia Experience

Parole chiave.

1 Biodiversità: Variabilità tra gli esseri viventi.

(Enciclopedia Treccani) La biodiversità, o diversità biologica, è definita dalla Conferenza dell’ONU su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 (art. 2 della Convenzione sulla diversità biologica) “ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi, compresi, tra gli altri, gli ecosistemi terrestri, marini e altri acquatici e i complessi ecologici di cui essi sono parte; essa comprende la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi”. La Convenzione riconosce, quindi, tre ordini gerarchici di diversità biologica ‒ genetica, specifica ed ecosistemica ‒ che rappresentano aspetti abbastanza differenti dei sistemi viventi.

2 Foresta Vetusta: (Forest Beat) Una foresta vetusta è un ecosistema caratterizzato dalla presenza di alberi di età avanzata, che possono quindi trovarsi al termine del ciclo di vita. Le foreste vetuste rappresentano la massima espressione di naturalità nei nostri territori. Infatti, grazie all’assenza dell’azione dell’uomo, gli alberi riescono a compiere tutto il loro ciclo vitale fino alla morte, arrivando così a raggiungere l’età massima possibile a cui nei luoghi fertili sono associate dimensioni notevoli.

3 Codula: (Sardegna Ambiente) Variante Ogliastrina per “gola profondamente intagliata nel calcare dolomitico, con fondo pieno di pietre rotondeggianti”.

4 Nuraghe Complesso: (Il tempo dei Nuraghi) con questo termine si intende un edificio munito di più torri, in genere aggiunto ad una pre-esistente isolata. Sono tuttavia noti nuraghi concepiti già all’origine come strutture complesse come si evince dall’integrazione tra i diversi corpi e dia dalle indicazioni fornite dai materiali archeologici nei contesti scavati. L’archeologo Prof. Giovanni Lilliu ipotizzava circa 2000 strutture, mentre l’archeologo Prof. Giovanni Ugas ne ipotizzava 1050.

Bibliografia

  • Montagne e Foreste della Sardegna | Domenico Ruju | Illisso edizioni
  • Il tempo dei nuraghi | Autori vari | Illisso Edizioni
  • Alberi, Arbusti Erbe della Sardegna | Renato Brotzu | Il Maestrale edizioni
  • Fiori spontanei della Sardegna | Renato Brotzu | Il Maestrale edizioni

Lu Lunissanti a Castelsardo.
I riti della settimana Santa in Sardegna

Il rientro verso la chiesa di Santa Maria la sera del lunedì santo a Castelsardo, è uno dei momenti più tenebrosi quanto spettacolari delle festività della settimana sarda in Sardegna.

Il rituale, di origine medievale con forti elementi barocchi, è uno dei vari sopravvissuti in Sardegna nelle varie fasi dell’anno e, insieme a tutta la settimana santa a Castelsardo risulta essere davvero intrigante. Un rito che sopravvive dai tempi in cui i monaci benedettini controllavano la vita religiosa, sociale e culturale della vecchia Casteldoria e di Tergu.

Bisogna viverlo per comprenderne il fascino, l’emozione che si prova a camminare nei vicoli del centro storico castellanense insieme alla popolazione locale è davvero unica.

Le coinvolgenti celebrazioni iniziano appunto con Lu Lunissanti, esattamente il Lunedì post domenica delle palme: al calar del sole inizia la notte santa e prima dell’alba i membri della Confraternita di Santa Croce si incontrano nella chiesa di Santa Maria. Sono loro i guardiani dei rituali di una simbologia antichissima tramandata nei secoli e che tuttora coinvolge gran parte della popolazione paesana. La messa ha luogo nella cappella di Santa Maria e comprende la celebrazione al Criltu Nieddu Cristo Nero), ne segue la processione verso l’abbazia della Nostra Signora di Tergu: sono due le figure che si alternano durante la processione: gli Apostoli (Appoltuli) che portano i Misteri di Cristo; I Cantori, che scandiscono vari cori: il primo coro Lu Cabu di Lu Moltu‘ (teschio di Castellanese ignoto) è seguito dal primo gruppo di cinque Misteri; il secondo Coro Lu Stabat‘, recante la statua dell’Ecce Homo, precede il secondo gruppo di Misteri. Chiude la processione il coro de Lu Jesus, recante Lu Crocifissu, formato dai più esperti cantori.

La processione prosegue con un ritmo quasi ipnotico con una sosta per ogni turno di canto e i fedeli che partecipano ai riti indossano rigorosamente un abito della confraternita, una tunica bianca (l’abbidu) con cappuccio (Lu Cappucciu). Una volta raggiunta l’abbazia vengono esposti i misteri davanti all’altare e i fedeli si lasciano andare in quella che risulta essere il momento più sentito della celebrazione: i pranzi e la festa per il ritorno della primavera, proprio li dove il momento sacro della rievocazione della “passione di Cristo” si fonde con la festa profana della rinascita, del nuovo raccolto, di una nuova vita. Il rientro avviene per la stessa via della processione di arrivo, ma il fascino delle stradine diventate buie che si illuminano grazie al passaggio delle lampade ad olio (Li fiaccoli) dei fedeli, rappresenta uno dei momenti emozionanti del Lunissanti a Castelsardo.

Durante la settimana santa ci sono gli altri rituali tra cui il Giovedì Santo, dove vi è l’incontro della Madonna addolorata con il Cristo moribondo. Nota particolare per la statua del Cristo in quanto inquadrabile al 1300 ed in legno di ginepro, anneritosi nel tempo. È da qui infatti la definizione del Cristo Nero. Nelle prime ore della notte del Giovedì ha inizio la cosiddetta Prucissioni con Lu Crucifissu e la Maria di Lu Pientu.

Nella giornata del Venerdì Santo viene rievocato Lu Lcravamentu, che consiste nella rappresentazione della deposizione del Cristo dalla croce. Anche questa processione parte dalla chiesa di Santa Maria con la rappresentazione dell’accompagnamento dell’addolorata in cattedrale.

Come da tradizione il Cristo viene liberato dalle corna di spine e dai chiodi che vengono offerti alla Madonna e mostrati al popolo.

I prossimi anni saranno delle grandi occasioni per rivivere questa emozionante tradizione.
Buona Pasqua.

Francesco Manca
Foto di Alessio Orrù
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Bibliografia e sitografia
Festival religiosi e secolari della Sardegna – Carlo Delfino Editore
Comune di Castelsardo
Sardegna Turismo
Sardegnainfesta.com

 

Sa domu de su Re.
Il Nuraghe Santu Antine di Torralba.

Frutto di dinamismo e grande sviluppo culturale, la civiltà nuragica ad oggi risulta ancora essere un complicato processo di studio e di riorganizzazione di materiali a disposizione.

Per poter analizzare e capire funzionalità, grandezza e importanza di questi monumenti megalitici è sempre utile avere una tabella cronologica della Sardegna antica a disposizione che permetta di immergerci direttamente in un determinato spazio temporale.

Link: https://bit.ly/2XhbF2H

La distribuzione dei nuraghes (circa 7000 quelli censiti) si è appurato non essere casuale e già dagli studi iniziati nel XIX secolo si notò che sono raggruppati in catene di numero variabile con una alternanza di zone di addensamento e diradamento. Tutto ciò rivela l’esistenza di comunità policentriche gerarchiche, articolate in più nuclei cooperanti su diversi livelli:

  • I nuraghes venivano costruiti e gestiti con la collaborazione dei diversi nuclei appartenenti ad una comunità;
  • È per questo evidente che non tutti avevano una certa importanza, sia per le dimensioni e la complessità strutturale, sia per le caratteristiche e le risorse di ruoli che occupavano.

Possiamo dedurne che nessuno dei nuraghes può essere considerato singolarmente, ma va fatto un discorso di comunità e strutturazione. Per le genti nuragiche era molto importante la centralità nelle relazioni rispetto alle risorse e alle vie di comunicazione non essendo comunque chiaro se questa gerarchia strutturale-funzionale fosse accompagnata da una gerarchia sociale permanente.

Questa opportuna premessa ci consente di capire la maestosità e l’importanza che rivestiva il Nuraghe Santu Antine di Torralba e di tutte le strutture nei dintorni.
Ci troviamo nella cosiddetta Valle dei Nuraghi una piana contornata da modesti rilievi che comprende i territori del Logudoro e del Meilogu, che assunse questa denominazione nel XX secolo in quanto interessata da numerosi insediamenti facenti parte di un sistema organizzativo territoriale che aveva nel Santu Antine il suo riferimento.
Edificato in grossi massi di roccia basaltica, domina la conca del Campu Giavesu in un crocevia di importanti percorsi obbligati dal nord a sud dell’isola. Noto fin dalla fine del ‘700 è stato messo in luce con una prima indagine sistematica e scientifica dall’archeologo prof. Antonio Taramelli nel 1935. L’imponente mole di blocchi di basalto si riduce man mano che si sale, la struttura è murata interamente a secco e la sua torre centrale è attualmente alta 17 metri e ha un diametro di 15 metri. Si presuppone che l’intera struttura sia stata realizzata nelle fasi finali del Bronzo Medio e il suo intenso utilizzo nel Bronzo Recente e Finale, inquadrando comunque un contesto abitativo che va dal Bronzo Medio (XVI sec. A.C.) all’età del Ferro (IX sec. A.C.).
È un gioiello dell’architettura proto-sarda con mastio e bastione trilobato, un triangolo equilatero sul cui baricentro svetta la torre centrale, la cui altezza originaria superava i 25 metri.

 Interni
La forma centrale è costituita da tre camere sovrapposte delle quali si conservano integralmente la prima e la seconda. All’interno della torre centrale vi sono tre aperture disposte a croce, ciascuna dotata di architrave con relativa finestra di scarico che mettono in comunicazione la camera con un corridoio anulare. Dal cortile è possibile accedere a due torri laterali poste ad est e a ovest e da qui nelle gallerie che convergono nella torre posta a nord.
Le lunghe gallerie-corridoio con copertura ad ogiva dotate di feritoie-prese di luce sono forse l’aspetto più significativo e monumentale del Nuraghe Santu Antine.

Esterni
Di fronte all’ingresso del nuraghe c’è la capanna delle riunioni con sedili e focolare. Attorno al nuraghe si sviluppa un esteso villaggio a cui si sovrappongono strutture rettangolari di età romana. Tutte le capanne nuragiche hanno per lo più pianta circolare con doppio paramento murario. Alcune capanne risultano molto grandi, tra i 7 ei 9 metri di diametro e presentano nello spessore murario delle aperture-feritoie (legate al bronzo recente e finale). All’interno delle 14 capanne circolari che ospitavano la popolazione del villaggio si conservano sedili, focolari, tramezzi, nicchie, stipetti che ne fanno ipotizzare la funzione

Storia degli scavi

1935 – Scavato per la prima volta dal Taramelli
1964 – 1966 ampliamento degli scavi e restauro – Guglielmo Maetzke
1983 – 1984 ulteriori scavi hanno evidenziato ulteriori elementi legati al bronzo medio e recente
1985 – Bafico e Rossi
2000 – Università degli studi di Sassari
2006 – 2009 lavori di restauro che hanno consentito di vedere nuovi lavori architettonici

⇒ Saremo lieti di potervi accompagnare in visita a questa meraviglia, ma se in caso ci andate da soli, ricordate di far riferimento alla Cooperativa Pintadera seguendo le info del sito web www.nuraghesantuantine.it

⇒ Senza dimenticare di visitare i siti che si trovano nei dintorni come:

  • Necropoli pre-nuragica di Sant’Andrea Priu a Bonorva;
  • Chiesa medievale di Nostra Signora di Cabu Abbas
  • Dolmen di Sa Coveccada

Autore: Francesco Manca
Your Sardinia Experience © 2020
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Bibliografia
Il tempo dei Nuraghi, Illisso edizioni 2018, Nuoro

Note Bibliografiche.
Taramelli 1939; Contu 1988; Moravetti 1988; Bafico, Rossi 1992; Boninu 2006; Boninu, Campus, Usai 2012-2013; Campus, Usai 2012-2015.

“My Sardinia rainy Experience”
Trekking sul Montalbo bagnato.

La sveglia suona alle 4:30, oggi non posso posporre quelle otto/dieci volte buone come nei giorni normali, ma alzarmi, al contrario di sempre, non mi risulta troppo faticoso. Uso poco tempo per preparare me, il resto era quasi tutto pronto.

Le previsioni parlavano chiaro, intorno alle 12:00, nel bel mezzo del trekking sarebbe iniziato a piovere e non potevamo permetterci nessun passo falso.

Questa volta eravamo un folto gruppo, 26 in tutto, ma con un po’ di fantasia e grande esperienza nel tetris siamo riusciti a parcheggiare i nostri mezzi nello spiazzo dedicato alla partenza del trekking.

Siamo a Siniscola il tempo è ancora clemente, anzi i raggi del sole ci scaldano sulla breve salita iniziale.

La prima sosta flash è per toglierci qualche strato di vestiti di dosso e bere dell’acqua freschissima che sgorga da una fontanella incorniciata da pietra.

Un tornante boscoso ci accompagna ai piedi della salita che ci porterà sul dorso del Montalbo.

Pian piano la terra soffice si fa calcare chiaro e nel cammino qualche corbezzolo ci regala i suoi scarlatti frutti maturi.

Non ci sono più tronchi alti a segnare l’orizzonte, ma tutto ora si apre senza interruzioni.

La salita, ci mette a sinistra la distesa blu del mare di Tavolara, il promontorio di Capo Figari, Posada e il suo favoloso castello, e la Caletta. Sulla destra il verde, la montagna di Tepilora, monte Nieddu, Padru e Lodè.

L’aria mescolava il profumo della brezza del mare a quello umido della montagna.

Proseguiamo su una salita che fa aumentare leggermente il battito cardiaco, ma con qualche pausa per respirare a pieni polmoni si risolve facile.

Arriviamo ai piedi di una scala fatta di bianchi gradoni calcarei, in cima stanno delle capre indaffarate nello svolgimento delle loro faccende quotidiane, qualcuna sentendoci arrivare alza la testa dal pasto per osservarci, ci guarda, ributta il muso sulla sua colazione.

Il grigio del mare calmo di novembre si fonde con il plumbeo del cielo che ci promette acqua ma senza cattiveria.

Nel cammino vediamo la lattuga del Montalbo, vegetale endemico che caratterizza la particolare flora di tutto il monte. Le scale ci portano al piano che sembra una valle lunare di lattei sassi ma terra e arbusti quanto basta per ricordarci che qui l’ossigeno c’è, e si sente.

Trovo un terrazzino di roccia, mi accomodo su una poltrona di pietra che mi lascia le gambe a penzoloni e vedo, sotto il tavolo di Montalbo, un tappeto d’erba dal manto fitto, accanto un pouf arancio di cava calcarea, tutto quanto poggiato sul pavimento ceruleo d’acqua.

Sulla destra, un balcone naturale con vista su tutta l’alta Baronia.

L’agente dice che non riesce a stimare il prezzo dell’immobile.

Le prime gocce d’acqua ci sfiorano il tratto di pelle che solitamente rimane scoperto tra la manica del giubbotto e i guanti, mettiamo agli zaini la copertura impermeabile e proseguiamo.

Tra buche scavate dai cinghiali e bassi arbusti, il sentiero ci porta su una distesa di terra spalmata sulla spina dorsale del monte.

Due perastri soli e vicini cresciuti sulla distesa di terra morbida in mezzo alla piana pietrosa mi ricordano quanto la vita ci provi ogni volta e quanto spesso, nonostante tutto, ci riesca.

Marco abbraccia quello grande, un po’ per gioco, un po’ per amore.

Adesso inizia a piovigginare, il percorso è in discesa.

Le pietre richiedono massiccia attenzione ad ogni passo, la pioggia rende tutto viscido, a tratti si scivola, ma come sempre si attutisce il colpo e ci si rialza.

Procediamo verso il basso in un sentiero a tornante, rimango indietro e più in alto rispetto agli altri, osservo la fila che formano e mi appaiono come un trenino fatto di vagoncini colorati che cammina svelto verso la valle, mi immagino le nuvole impalpabili sulle loro teste come fossero il vapore bianco diffuso dal trenino in corsa, mi manca solo di sentire il classico “ciuf ciuf”, al suo posto campanacci e risa.

La pioggia è caduta per tutta la discesa, ma ci ha giusto tenuto compagnia senza mai diventare invadente.

Per il pranzo abbiamo trovato riparo in due pinnetus nella vallata, in quello dove capito io ci stringiamo per farci spazio in modo da stare tutti comodi, mi godo la compagnia dei miei colleghi di trekking, tra vari scambi di cibo, bevande calde o fredde, cioccolata, dolci, polli arrosto, un gruppo di amiche che si conoscono da tempo ci intrattiene con dei racconti divertenti, hanno sintonia, feeling e contenuti, tali da superare anche i migliori umoristi sul mercato, rido fino alle lacrime.

Dopo il caffè che Checco prepara per tutti ci bardiamo bene con gli impermeabili per proseguire il percorso.

La pioggia nel frattempo ha aumentato l’intensità, inizia a tirare un vento gelato che mi colpisce subito le mani nude, le affondo nelle tasche e proseguo.

Adesso siamo sotto il monte, per l’occasione vestito con una lunga gonna di nuvole, è elegantissimo e affascinante.

Il suono delle gocce di pioggia sul cappuccio fa compagnia ai pensieri.

Ho le mani calde.

Il percorso del trekking qui è semplice, c’è tutto il tempo per parlare, scherzare, fare due passi di ballo sardo in corsa con la musica intonata a voce e il ritmo dato dal battere di mani e risate.

Proseguiamo per il bosco e ai lati del sentiero vediamo quasi i funghi spuntare sotto i nostri occhi.

Mancano pochi chilometri alla fine, il cielo piove presente e costante. Non mi era mai capitato prima di fare un trekking sotto la pioggia qui in Sardegna, sotto un’acqua assidua ma gentile. Ne avevo fatto esperienza solo una volta in Norvegia, dove piove più sempre che spesso, è una condizione di normalità, si cammina sotto l’acqua tanto quanto e come quando è sereno.

Gli odori della terra bagnata, le pietre grondanti lavate dallo scorrere dei ruscelli del cielo, le gocce che scivolano sulle foglie degli alberi, a volte qualcuna che resiste attaccata alle piccole verdi lamine, fino a che non arrivano altre liquide sorelline a mandarle via e a prendere il loro posto. Il ticchettio dell’acqua sugli indumenti che la scacciano, e io lì a camminare avvolta dalle nubi basse, accarezzando la pioggia e camminando a ritmo con il suo cadere.

Mi sento fortunata a vivere uno scenario per me così insolito qui, nella mia isola.

Secondo la mia abitudine avrei pensato pioggia uguale giornata passata sotto un tetto qualsiasi a vivere malinconicamente la mancanza del sole. Oggi piove, ma di malinconia non c’è l’ombra.

Arriviamo alle macchine, come sempre abbiamo indumenti puliti e asciutti ad aspettarci, ho solo le tibie leggermente umide, per il resto penso che in città durante una giornata di pioggia, solo per scendere dall’auto e raggiungere l’ingresso del supermercato senza ombrello, con un abbigliamento normale, mi sarei sicuramente bagnata in modo fastidioso.

Mi viene in mente quel detto popolare che recita “non esiste il cattivo tempo, esistono solo gli abiti sbagliati”, penso che (escludendo uragani, tsunami, e catastrofi varie), non avevo mai dato troppo peso a queste parole, finché non mi sono soffermata sulla differenza di uno stesso paesaggio in condizioni climatiche diverse, e quanto valga la pena di essere vissuto. Come si possa godere dello stesso posto mutato in profumi, colori, panorami regalati da semplici accadimenti stagionali tipici, solo con gli abiti giusti e un leggero coraggio.

Fatte le pippe mentali, possiamo accendere i motori per dirigerci verso Siniscola a casa di Claudio e Bea, produttori locali di pompìa e assaggiare le prelibatezze che producono.

Ci propongono una merenda mistica, con marmellata dell’acerbo frutto, abbinata a casu marzu, salsiccia, pani carasau, vino e per finire liquore, ovviamente di pompìa. Claudio ci racconta quello che è il suo lavoro e l’interessante storia del recupero del tipico frutto siniscolese. È un ragazzone sorridente e dai riguardi che ha per noi sembra che ci conosca da quando eravamo piccolini.

Si è fatto buio e per noi trekkers si sta facendo ora di andare, ci salutiamo tutti e ci dividiamo nei vari mezzi che ci hanno portato fin lì.

Nel van in cui sono io, becchiamo una playlist che ci mette tutti d’accordo: Litfiba a palla e si canta a squarciagola fino al punto d’incontro.

La pioggia è stata forte e incessante per tutto il tempo.

Ci stavamo divertendo è vero, ma una volta arrivati ad una fila pazzesca a causa di lavori sulla strada che ci hanno rallentato notevolmente, con la pioggia scrosciante sulle auto e sull’asfalto di fuori, i clacson impazziti degli automobilisti con i nervi a fior di pelle, le moleste luci rosse degli stop a intermittenza, fare due metri ogni cinque minuti, benché al caldo e al riparo dall’acqua, senza che ci sia stato bisogno di dircelo, sento che il pensiero di tutti noi sia tornato, svelto e nostalgico all’umido trekking di qualche ora prima.

Anche oggi torno a casa con lo zaino più vuoto di quando sono partita, più leggera, ma mi sembra comunque di aver portato tante cose con me.

Penso che non vedo l’ora che la pioggia si trasformi presto in neve.

Daniela Vitellaro ©

Photo Credits: Riccardo Diana ©

Trekking for life: l’avventura di Daniela.
Su Suercone raccontato dalla penna di una tirocinante.

Sono in macchina, è ancora buio e in strada ci sono solo i sopravvissuti del sabato sera. Penso che anche io dovrei essere alla guida a quell’ora solo per tornare a casa e buttarmi a letto dopo la serata.
Arrivo al punto d’incontro. Sono tra i primi. Ho gli occhi appiccicati dal sonno.
Scorgo dei fari che si avvicinano in contemporanea, dalle macchine scende qualcuno che potrebbe essere dei nostri.
Ho freddo e penso che è ancora troppo buio per qualsiasi interazione sociale priva di ripercussioni penali, ma mi faccio coraggio e scendo, raggiungo un capannello di persone. Non mi conoscono ma guardandomi capiscono che anche io sono dei loro, uno fa per presentarsi e dice “Conzuccheroosenza”, “Senzagrazie” dico io nella stretta, e mi ritrovo con una tazza di caffè fumante a scaldarmi le mani.
Sorrido e penso che abbiamo dei nomi bizzarri.

È ancora buio, ma è già meno freddo.
Non so cosa sia successo durante il viaggio, l’ho usato tutto per dormire.
Ho capito che eravamo arrivati, quando, aprendo gli occhi ho visto querce e terra nuda.
Ho dovuto prepararmi in fretta, la condizione di torpore mi aveva rallentato mentre gli altri erano ormai quasi pronti. Ho stretto i lacci e fatto un respiro profondo guardando il cielo reduce dall’alba.
Mi sono convinta di essere pronta per uno dei trekking più belli della Sardegna.

Siamo a Oliena, nella valle di Lanaitto.
La salita è per me già ripidissima, ma a quanto pare il bello deve ancora venire.
Il bosco profuma di un’estate secca che vuole diventare autunno, senza fretta.
Sono in mezzo al gruppo di queste persone appena conosciute, parlano tra di loro, e dai loro scambi ho come la sensazione di stare tra vecchi amici che si rincontrano dopo qualche tempo per aggiornarsi sul proprio presente.
I passi hanno il suono di foglie cadute, metro dopo metro lo scenario muta in colore e consistenza, la terra scura diventa pietra chiara, muri di rocce e ginepri ci portano su una passerella che sovrasta uno scivolo di pietra.
Siamo sulla pendice del letto di un fiume adesso in secca. Mi chiedo come scorra l’acqua quando è vivo, la immagino mentre guardo i solchi evidenti che ha lasciato sul suo cammino. Sento difficile dover proseguire, perché è difficile lasciarsi alle spalle quel candore abbagliante.

Il trekking prosegue tra blocchi di calcare appoggiati sulla Terra che consentono passaggi in tunnel naturali. Lentischi e lecci sostengono le incertezze.
Si sale, ancora e ancora, la fatica è tanta e sono quasi sempre indietro ma non sto mai sola, a rotazione mi trovo accanto i compagni d’avventura, qualche battuta e mi parlano dei loro lavori, dei posti dove vivono. Sono tutti diversi ma è forte la percezione di una passione che li accomuna.

La prima sosta è su uno spiazzo in cui le rocce accolgono la nostra fatica. Mi chiedo se riuscirò a sopravvivere, visto che non siamo nemmeno ad un quarto del percorso, ma gli altri attorno a me ridono e scherzano, un po’ di tutto, un po’ di tutti. Mi rincuorano.
Checco non ha voluto che lasciassi nemmeno la buccia dei mandarini sul percorso “siamo ospiti del bosco, non dobbiamo lasciare nessuna traccia, anche se è biodegradabile” dice. “E va bene” dico.

Ripartiamo.
Adesso capisco perché la salita iniziale era uno scherzo in confronto: davanti a me si apre un canalone che ha le sembianze di una cascata di pietre, vedo la fine e mi sembra sempre troppo lontana. So solo una cosa, che dobbiamo arrivare in cima. Vedo la cima e mi sembra sempre troppo lontana.
Il peso dei miei passi a tratti mi sembra insostenibile, a tratti vengono dei sorrisi a confortarmi. Ormai ho i chilometri sotto i piedi, per salire mi aggrappo alle stesse rocce che mi ostacolano.

Il trekking porta la targa di pietre graffiate dall’acqua che hanno un colore che non riesco a definire con una parola. Mi ricorda l’azzurro del cielo di una bella giornata d’inverno in Sardegna, prima del tramonto.
A questo punto il battito cardiaco che mi pompa forte nelle orecchie è una costante, vedo gli altri salire e zampettare da una pietra all’altra e non posso fare a meno di chiedermi se nelle vite passate fossero stati tutti stambecchi, capre o mufloni, finché appare qualcuno accanto a me che a trentasei denti, dandomi una pacca sulla spalla, mi dice “anche per me le prime volte è stato così”. Lo guardo, mi gronda la fronte, ad ogni passo sento il peso di tutta forza di gravità che agisce sul Pianeta. Tutto quello che ho sopra il collo ha la temperatura di Marte, gli chiedo di avere pietà di me e chiamare l’elisoccorso. Ride.

Ormai ho smesso di pensare alla cima, la fatica e io abbiamo raggiunto un livello di confidenza tale che le sto per chiedere di diventare mia testimone di nozze.
Vorrei solo buttarmi a terra e piangere fino a che non fa buio, aspettare che qualche animale selvatico venga a cibarsi di me e ringraziarlo per l’opera buona, e invece mi ritrovo in cima.
Mi guardo, guardo gli altri, guardo sotto, il fiato ce l’avevo già mozzato, quindi respiro più forte che posso. L’aria mi invade i polmoni, l’ho sentita forte, quasi come fosse la prima volta che si riempivano d’ossigeno, e come per i bambini appena nati, sarei dovuta esplodere in un pianto energico. Ho avuto tutto il tempo per riempire anche gli occhi e il cuore con quello che stavo guardando.

Eravamo in cima alla dolina de su Suercone, la tappa più importante del trekking, una distesa finita perché ne vedevo i confini, ma una sensazione di infinito e immensità tali da farmi sentire nello stesso momento un essere piccolo, minuscolo e senza influenza alcuna sull’Universo, e contemporaneamente gigante, potente e privilegiato, in grado di poter inglobare così tanta bellezza. Quelli più allenati sono scesi giù nella dolina, a “s’ingurtidorgiu”, io dovevo conservare le forze per arrivare sulle mie gambe alla fine.

Con gli altri rimasti, ci siamo seduti all’ombra di un leccio isolato e maestoso.
Mentre restituivo le energie al mio corpo con il cibo e il riposo sulla cima di quel maestoso cucuzzolo, nella mia testa non penetrava alcun pensiero che non fosse riconducibile allo spettacolo che stavo osservando. Vedevo le pareti della dolina come il manto di un animale fantastico pettinato dal suo amico gigante.
Attorno a me persone rilassate, e la miniatura tangibile di quell’immensità eterea.
Ho fatto un giro lì attorno per perdermi nei dettagli del verde e della roccia, ne ho trovato una leggermente concava che mi ha cullato.

Mi hanno risvegliato per il caffè.
A questo punto mi stupiva la mancanza di terrore verso nuovi passi.
La mia futura testimone di nozze non era più così presente ed ero avvolta dalla curiosità per la scoperta dei nuovi scenari di questo trekking.
Come da promessa il sentiero proseguiva in piano e lì il tuo corpo non chiede pietà, va e basta.

Sento dei  campanacci, sotto un leccio vedo tre vacche che ci osservano ruminando, mi chiedo come abbiano fatto ad arrivare fino a lì. Mi chiedo se loro si stiano chiedendo la stessa cosa su di noi.
Siamo sulla piana di campu Donanigoro, in fila su un sentiero battuto dai passi, in una distessa di verdi e spruzzi di massi. Tutt’attorno il cielo.

Siamo ormai ai tre quarti del percorso ad anello, mi dicono che c’è solo un’altra salita da sconfiggere prima della discesa finale. Ho di nuovo un po’ di paura adesso, ma penso che posso farcela.
Quando arriviamo ai suoi piedi, mi rendo conto di non aver ben compreso in precedenza cosa ci aspettava, non era solo una ripida salita, era di più: era una scala.
Un’aspra scala a chiocciola di calcare rosso arancio, ad ingentilirla, solo un corrimano di ginepro. Anche adesso vedo la fine, ma adesso penso che voglio centellinare ogni passo per poterne ricordare ogni granello. Un altro spettacolo per cui vale la pena pagare il biglietto, penso.

Come promesso poi è iniziata la discesa.
Ginepri levigati, cisto e lecci ancora tutti lì, a costeggiare il cammino sulle pietre graffiate.
Sotto le suole sono tornate la terra e le foglie, gli alberi ai margini del sentiero si sono fatti più alti e frondosi, il canto del vento tra le chiome è colonna sonora degli ultimi chilometri in discesa.

Eravamo arrivati, ero sopravvissuta a 14 km di camminata e 2000 m di dislivello.
Il tempo di cambiarci e dare nuovo respiro alla pelle sudata e siamo pronti per la nuova meritata tappa alla cantina sociale di Orgosolo.

I nostri ospiti ci hanno raccontato dei loro vini con passione presente, e per ognuno di noi, la cura che si riserva agli amici più cari. Brindiamo alla giornata appena trascorsa e a chi ci ha permesso di viverla.

Ho usato di nuovo il viaggio per dormire, questa volta per riposare un corpo stanco, ma riempito di un’energia nuova. Siamo arrivati al punto di incontro, adesso saluto tutti conoscendo i loro nomi e qualcosa in più sui bagagli che portano.

Sono alla guida verso casa ed è di nuovo buio.

Ho in mente la potenza dei posti che ho visto. Rifletto sulle persone a cui ho appena augurato la buonanotte. Ho capito le sensazioni che ho avuto guardandoli all’inizio. Tutti con le loro vite, con le loro personalità definite, unite da quello che il trekking ti dà, non solo per quello che trovi di fuori, ma per il tempo che ti concede di stare con te stesso, dentro, nel profondo, per sentire il tuo respiro e lo scorrere della vita in ogni vena.

Persone tra loro sinergiche, in cui si ha lo spazio per condividere fin dove si vuole e stare con se stessi se lo si vuole.

Allacciandomi gli scarponi, mi ero convinta di essere pronta per uno dei trekking più belli della Sardegna, adesso penso che la Sardegna contiene una bellezza per cui non si può mai essere pronti.

Daniela Vitellaro, in trekking a Su Suercone © 2019

Ferragosto in Montagna 2019

2’ min di lettura.

Il crocevia dell’estate che si appresta a concludersi, forse il grande appuntamento atteso dai vacanzieri, è visto come una giornata di festa e relax dai più diversi significati.
Il riposo di Augusto o meglio le feriae augusti nascono proprio grazie all’imperatore che nel 18 a.C. decise di introdurre la festività come celebrazione della fine dei lavori agricoli e per fornire un adeguato periodo di riposo dopo le grandi fatiche dei giorni precedenti.
Attualmente ha preso le sembianze di una festa ad ampio raggio, multiculturale e coinvolgente che spazia dalle iniziative culinarie alla musica un po’ ovunque.

Il nostro ferragosto si vivrà nelle montagne della Sardegna e avrà il sapore dolce della Carapigna, probabilmente il più antico gelato dell’isola fatto di acqua, zucchero e limone.
Arrivato grazie allo scambio culturale con le maestranze iberiche nel XVI secolo è ancora oggi preparato a mano dagli artigiani con gli appositi strumenti e con l’antica ricetta.

Durante questa giornata di Giovedì 15 Agosto 2019, andremo ad assaggiare più volte questo gelato e per arricchire il programma vi proponiamo due ‘Esperienze emozionali’ in cui l’ospite stesso sarà il protagonista.

  • Il trekking al Flumendosa;

Avremo il privilegio di calpestare sentieri montani che parlano di una terra millenaria che sprigiona una forte energia e che preserva un’immensa varietà di bellezze naturali per poi concludere il trekking con un fresco bagno nel Flumendosa.

  • I laboratori della pasta e del pane ad Aritzo;

Toccheremo con mano e tutti i tuoi sensi saranno coinvolti nell’esperienza della lavorazione della pasta e del pane tipico sardo all’interno di una storica abitazione aritzese. Assisteremo alle diverse fasi insieme ai componenti della famiglia, appartenenti a più generazioni, interagirai con tutti loro e sarai protagonista diretto del rituale sacro della preparazione di pasta e pane che ti lascerà un sapore antico in bocca ed una ‘calda’ emozione nel cuore.

 

Info e prenotazioni:

+39 340 006 9191

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Scopri il nostro evento nel sito: https://bit.ly/2rpTAkE

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Testi a cura di Francesco Manca ©

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Trekking in Sardegna: parte prima.
Le cale del Supramonte di Baunei.

Acque blu, sentieri selvaggi e carbonato di calcio.
Tre ingredienti speciali per un fine settimana in trekking.

Il nome Supramonte sentendolo pronunciare evoca subito vari ricordi che lasciano un alone di mistero.
Corre l’anno 2019 e il trekking in Sardegna inizia a prender piede, numerosi turisti da tutte le parti del mondo studiano da prima di viaggiare i territori della nostra isola, oramai non più terra di soli avventurieri ma meta ben precisa da raggiungere.

È così che il paesaggio aspro che si tuffa sul mare, ricco di vegetazione autoctona che profuma di ginepro, vecchio regno di caprai e banditi è diventato luogo di emozionanti arrampicate e di indimenticabili escursioni.

È il primo impatto che conta. Così si dice spesso in montagna quando si incontra un monumento naturale che ha tutte le caratteristiche per rubarti il cuore. E qui le acque blu del mare di Baunei, le falesie di calcare e i sentieri selvaggi che si snodano all’interno entrano nella memoria di chiunque abbia il privilegio di goderne la maestosità.

Noi ci andremo in escursione il fine settimana del 15 e 16 Giugno.

Affronteremo il sabato il percorso che dalla località ‘Piredda’ ci porta al ‘Bacu Mudaloru’ e la domenica partiremo dalla località ‘Ololbissi’ per raggiungere ‘Cala Biriola’ un delle perle di questo fantastico angolo di Sardegna.

Passeremo la notte in un ovile, ospiti di alcuni amici di vecchia data in modo da trascorrere una serata con loro immergendoci ancora di più nella realtà locale.

Tutte le informazioni le trovate qui:

Contatti:
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L’evento in Ogliastra è realizzato dall’azienda Your Sardinia Experience ®, Guide Turistiche ed Ambientali Escursionistiche iscritte al registro RAS e iscritte all’AIGAE, associazione italiana guide ambientali escursionistiche. Per l’occasione, come amiamo fare, ci avvarremo della collaborazione di diverse realtà locali operanti nel territorio visitato.

L’assicurazione RC è inclusa per tutti i partecipanti e l’accompagnamento sarà effettuato da guide @AIGAE Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche e iscritte al Registro Regionale RAS (Regione Autonoma della Sardegna). Affidarsi a guide professionali certificate è una garanzia in più per la vostra sicurezza e per la qualità dell’esperienza.

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Esperienza in famiglia

Aritzo, patria del poeta Bachisio Sulis, a 817 metri sul livello del mare, sorge sulla costa del monte Genna de Crobu, la parte estrema settentrionale della montagna di Funtana Cugnada, una delle più alte dell’isola. Il nome del paese potrebbe derivare dalla parola fenicia “haratz” che significa forte, sicuro; altri la riportano alla lontana eredità nuragica, come “luogo in cui nascono le acque”. Infatti il paese è ricco di sorgenti, le più famose sono quelle di Is Alinos, Su zurru e Sant’Antoni.

L’Angius definiva questo piccolo paese il giardino della Sardegna, per la sua varietà di vegetazione, ma anche per quelli che un tempo erano gli abiti tradizionali, in special modo quelli delle donne. Il giallo e il blu de Su cippone attrinau, il viola de S’isciallu, copricapo in seta arricchito di bellissimi disegni a fiori, ed infine il rosso de Su sautzu, la pesante gonna d’orbace.

Il paese oggi, nonostante il passare degli anni, conserva ancora qualche balcone o ballatoio in legno nelle case in scisto, visibili in un curatissimo centro storico. L’economia del paese è basata su pastorizia e artigianato, che prende forma dal legno dei suoi immensi castagneti. Sos maistos ‘e linna producono famose cassepanche (cascias ‘e Aritzo) e taglieri, secondo la tecnica dell’intaglio. Is cascias, erano adibite alla conservazione del pane e della biancheria, soprattutto della novella sposa.

Cosa vi offrirà questa esperienza in famiglia

Verrete immersi in un’atmosfera familiare, dove non rivestirete il ruolo di ospiti ma di uno di loro. Assisterete ai laboratori di prodotti tipici (pasta fresca, pane, torrone, formaggio e carapigna) con cui la maggior parte delle persone si misura solo al supermercato, ignorando quanto lavoro e pazienza vi siano dietro.

Questo tour vi permetterà realmente di far un passo nel passato, vivendo la genuinità e le tradizioni locali. Sarete accolti dal sorriso e dalla cortesia tipica delle donne e degli uomini del paese di Aritzo, che con grande orgoglio vi mostreranno tradizioni da sapore antico. La famiglia dividerà con voi i piaceri del buon cibo e le conoscenze di un’arte culinaria, in altri luoghi ormai andata perduta.

Pane e pasta fresca

Il pane non era in passato solo un alimento fondamentale per le famiglie aritzesi, ma rivestiva un ruolo tra il sacro e il rituale. Chi poteva permettersi il forno, panificava per sfamare la famiglia, anche se la distribuzione dei pani avveniva nella cerchia del vicinato e del parentado. Le donne erano solite alzarsi all’alba per preparare l’impasto, prima di metterlo a riposo, facevano il segno della croce con le mani, augurandosi e pregando che avesse buon esito. Tra i pani tipici dei questo piccolo paese barbaricino troviamo il pane carasau o carta da musica. Con i suoi semplici ingredienti, vi sembrerà, vista la sua croccantezza, di sentire una sinfonia musicale, proprio come se fosse carta da musica.

La preparazione è molto delicata e richiede una certa esperienza. Dopo s’inthurta, la miscela degli ingredienti in ampie ciotole di terracotta o di legno, si impasta il tutto con decisi e veloci movimenti. Dopodiché si dispone la pasta in contenitori di sughero o terracotta, coperti da panni spessi, perché possa pesare, ovvero alzarsi e lievitare. Lavorati i singoli pezzi con piccoli mattarelli, vengono infornati in forni esclusivamente a legna ed a altissime temperature. Con una pala le donne infornano i dischi di pane per una prima cottura che vede il pane gonfiarsi come una palla. Il pane viene diviso in due facce e infornato una seconda volta, da cui il termine dialettale di carasadura. Accanto al carasau, troviamo sa coccoi cun gelda, una sorta di piccolo calzone col ripieno di ciò che rimane del lardo dopo l’estrazione dello strutto, con l’aggiunta di cipolle e formaggio pecorino. Ed infine Su tancone, pane a lungo durata con crosta dura denominato altrove civargiu.

Sull’impasto di alcune varietà di pane, come detto sopra, veniva inciso col coltello il segno della croce, per scacciare i demoni o le forze maligne che avrebbero impedito la lievitazione, privando la famiglia del prezioso cibo. In realtà questo taglio aveva una seconda spiegazione, scientifica stavolta, infatti permetteva alla pasta di avere una giusta lievitazione anche negli strati più profondi. Tra la pasta fresca spiccano senz’altro i ravioli di patate e gli gnocchi, chiamati pitzeddos.

Dolci aritzesi

Tanti sono i dolci aritzesi, tra cui spiccano per gusto senz’altro Sa panesaba, ottenuta dall’amalgama di noci, nocciole e saba, il mosto lasciato a raffinare, Is bucconettos, impasto di nocciole tostate e macinate con l’aggiunta di miele, Is caschettas, sfoglia avvolta in spirale con all’interno un impasto di noci, nocciole e miele,  Is sebadas  col ripieno di formaggio, Is pabassinos, piccoli dolcetti di pasta frolla, noci e uva passa,  ed infine, ma non meno importante Is orrubiolus fatti con pasta fresca e scorza di buccia d’arancia o di limone.

Carapigna

La carapigna è il tipico sorbetto di Aritzo; le sue origini sono antichissime.  Nel periodo invernale la neve veniva depositata dagli niargios in grotte  o cave appositamente  costruite (le neviere), dove si conservava tutto l’anno, destinata soprattutto alla città di Cagliari, che in estate riceveva molti carichi al giorno. Per il paese era un’importante fonte di reddito. Nel periodo estivo il ghiaccio, sottoforma di blocchi, veniva trasportato e commercializzato in tutto il Campidano per i diversi usi e per la produzione del sorbetto. La neve tagliata a grossi pezzi cilindrici, veniva caricata sui cavalli, i quali viaggiavano durante la notte per sfuggire al calore e ai raggi del sole, che avrebbero compromesso il ricco bottino. Oggi si usa il ghiaccio, ma la lavorazione, la conservazione e la stagionatura sono rimaste le stesse, ecco il motivo per cui il sapore di questo squisito sorbetto al limone è rimasto pressoché inalterato.

Si prepara con l’utilizzo di una sorbettiera in alluminio al cui interno si versa una limonata preparata con acqua, zucchero e limone. Una volta chiusa con un coperchio munito di maniglia, la sorbettiera si introduce all’interno di su barrile, una tinozza in legno aperta nella parte superiore. Sul fondo e nell’intercapedine intorno alla sorbettiera viene disposto ghiaccio tagliato a pezzi che viene poi cosparso di sale. Il movimento rotatorio impresso manualmente alla sorbettiera contro la superficie fredda, grazie anche all’azione del sale, fa si che la limonata a contatto delle pareti si solidifichi. La sorbettiera viene aperta e il contenuto lavorato con diversi strumenti in acciaio e in legno, affinché il prodotto sia il più soffice possibile, proprio come la neve fresca.

Salumi e prosciutti

Nella cantina della casa barbaricina, la famiglia vi farà vedere i prosciutti e salsicce appesi al soffitto, e vi farà gustare soffici fette dei loro prodotti accompagnati dal pane carasau.

Un tempo l’uccisione del maiale all’interno di una famiglia, rappresentava una grande festa. L’animale fatto ingrassare il più possibile con una dieta a base di ghiande veniva ucciso dai membri maschili, ma all’uccisione assistevano tutti, comprese donne e bambini. Dopo essere stato ucciso l’animale veniva dissanguato e il prezioso liquido raccolto in bacinella e fatto bere ancora caldo ai bambini. Agli stessi veniva dato un pezzetto di fegato anch’esso ancora caldo, per fortificarli e nutrirli. Dato che del maiale non si butta via niente, gli uomini preparavano prosciutti, salumi, salsicce, sanguinaccio e is grandulas, ovvero i guanciali. La testa dell’animale veniva tagliata a pezzi e messa a bollire con fave secche, rappresentando uno dei piatti più prelibati della tavola aritzese. Infine altri due piatti tipici erano s’entre ‘e samene, letteralmente pancia di sangue, e s’idalizzu, sanguinaccio con l’aggiunta di uva passa, cannella e chiodi di garofano.

La mia family experience

E’ stata la mia prima ‘Family experience’ (Esperienza in famiglia), ma viste le emozioni che ho provato, sarei pronta a replicarla in ogni momento. Dopo la visita guidata all’ecomuseo di Aritzo, e una breve camminata per raggiungere il paese attraverso una stradina di campagna, siamo stati in un piccolo piazzale dove abbiamo degustato prosciutto e guanciale, mentre davanti ai nostri occhi un giovane pastore preparava il formaggio.

Siamo stati poi condotti in una casa in perfetto stile barbaricino, una domu ‘e mannai che già dalle fattezze esterne suscita curiosità. Un enorme piazzale esterno, due piccoli locali inseriti al suo interno, tra cui la stanza del forno, completavano l’opera altri vani, tra cui una cantina con i prosciutti e i guanciali appesi al soffitto.  Una gentile signora ci ha salutato varcando il cortile esterno, stringendoci  la mano uno per uno. In quel momento, presentandomi a questa gentile aritzese, mi sono sentita felice, perché il calore umano e la cortesia reale che ti hanno dato ha un sapore di qualcosa che non si trova più.

Dopo esserci accomodati tutti insieme fuori nei vari muretti in pietra, alcuni di noi hanno visitato gli interni; in uno che dava sul cortile, vi era un’esposizione di oli e liquori locali, limoncello e mirto, e un’incredibile Aritzella, crema di nocciole del luogo. Abbiamo degustato e assaggiato queste prelibatezze e siamo stati sfamati con vari piatti: coccoi cun gelda, carne di cinghiale in umido, e pane carasau appena sfornato. Una veloce curiosità, il pane era infornato da un giovane ragazzo che passava i dischi pronti alla signora seduta accanto, che li sistemava sotto una pesante tavola di legno per appiattirli. Nella tradizione la preparazione del pane era un’esclusiva femminile,  vedere questo ragazzo eseguire veloce i passaggi è stato emozionante. Cambia la generazione ma la fatica e l’essenza sono le stesse.

Nel cortile c’era aria di festa e piena condivisione, sembravamo una grande famiglia allargata, anche se tra noi non ci conoscevamo. Si è respirata allegria e semplicità  fino all’ultimo istante; i sorrisi delle donne che ci hanno accolto e abbracciato come fossimo stati figli loro, le stesse donne che ci hanno mostrato la lavorazione della pasta fresca. Alcune di noi si sono premunite di cuffia e grembiule, e insieme a Signora Vittoria e zia Pupetta si sono cimentate in questa non semplice pratica.

Tutti sorridevano, mangiavano e bevevano, mentre le nostre guide ci intrattenevano con aneddoti sul paese. Mi sono sentita come a casa, accolta, ben voluta e amata. Io provengo da un piccolo paese vicino, per me queste pratiche e quest’atmosfera sono normali. Ma sono qualcosa di nuovo per chi viene dalle città, per chi è immerso nel caos e nella routine movimentata del lavoro. Consiglio la Family experience a coloro che cercano un momento lontano dalla vita frenetica e dal rumore, che sognano di trascorrere qualche ora in un piccolo angolo di paradiso, vivendo momenti di condivisione, gioia e genuinità, coloro che voglio scoprire e riscoprire le radici sarde.

Aritzo è ciò che risponde ai vostri desideri.

Dopo esserci congedati da quella calda atmosfera, ci siamo avviati nelle strette vie che portano al centro storico, con la visita de Sa Bovida, ovvero delle carceri spagnole e della Casa Devilla. Pensavamo di aver visto tutto, ed invece sorpresi abbiamo assistito alla preparazione della carapigna e del torrone. Un’esperienza incredibile, fatta di sapori veri e forti. Il torrone caldo si scioglieva in bocca mentre sentivi il gusto delle croccanti noci aritzesi. Un bicchiere di carapigna completava il tutto, ti rinfrescava la bocca e ti dava vitalità. Felici ma anche un po’ tristi, perché era il momento di partire, abbiamo salutato le nostre guide e il maestro torronaio. Poche ed essenziali parole per descrivere ciò che abbiamo vissuto e visto in una fredda mattina di marzo: tradizione, cultura, identità, emozioni vere  e…famiglia.

Grazie a Francesco, a suo padre Albino, a sua madre  Vittoria, alle sue zie Pupetta, Beatrice, Fulvia e Mariantonia, a suo fratello Stefano.

Grazie ai vari collaboratori, tra cui Stefano e alle meravigliose ragazze vestite con l’abito tradizionale, simbolo di identità e fierezza sarda.

Grazie ad Aritzo per averci aperto le sue porte e le sua case. Voi tutti siete stati la mia famiglia per un giorno.

Marianna Piras